Per una psicosi straordinata -“Immaginare” un transfert-

Laddove “immaginare” sta per “rendere immaginario”.

Il titolo del prossimo Congresso dell’AMP*, e nello specifico quell’apparentemente secondario “sotto transfert”, è solo l’ultimo dei numerosissimi inviti a scandagliare ancora quella che forse è la più annosa vexata quaestio nell’ambito del trattamento psicoanalitico delle psicosi, ovvero se sia possibile o meno che si installi un meccanismo transferale tout court che abbia come soggetto chi mantenga in sé il proprio oggetto e che quindi non possa depositarlo, come accade nella nevrosi, nel “posto del morto” occupato dall’analista.

Ergo, diremmo noi, come sia possibile essere anche immaginariamente morti, dacché si dà per scontata l’esigenza, di fronte alla psicosi, di mantenere un presidio immaginario, interpretato a volte abusivamente, al limite dell’assistenza infermieristica, giustificati dall’ultimo Lacan, che ravvisa in Joyce un anello immaginario a cui “non resta che sloggiare”.

L’analista può opportunamente e immaginariamente agire “a vuoto”?

Volendo scongiurare un’ ecatombe autolesiva nei confronti del proprio sembiante nella comunità analitica, che avrebbe delle conseguenze reali senza però esserlo, vorremmo trarre spunto dalla clinica delle psicosi dette ordinarie, avviata da JAM, e da un episodico approfondimento delle accezioni possibili del termine “immagine”, per forzare la questione e saggiare ancora una volta la tenuta del vecchio adagio, ormai abbandonato ma surrettiziamente spesso mantenuto, secondo il quale un transfert operativo, analogo a quello attivabile sulla nevrosi, nella psicosi sia pressoché impossibile. Ovvero che non cessi di non scriversi.

Si potrebbe pensare a come renderne l’impossibile scrittura, o forse che rendere immaginario l’inscrivibile sia una via possibile? Scrivere il non cessare di non scriversi? La frase, in effetti, è lì. Immaginaria.

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Diane Arbus

Oggi parliamo di Diane Arbus, fotografa statunitense di origine polacca che ha fatto la storia ed è diventata, a mio avviso, una delle più grandi icone delle fotografia. Questo enorme successo si deve, oltre che per la sua maestria e tecnica fotografica, ai soggetti ritratti nelle sue immagini: dagli anni settanta Diane si dedica in maniera esclusiva e sistematica ai freaks, ovvero a quelle persone considerate negativamente dalla società come inusuali a causa del loro modo di agire. Il tema principale del suo lavoro (in cui essa si riconosce) è quindi la Diversità e la Deformità, quest’ultima presa nella sua accezione etimologicamente neutra e libera da qualsiasi intento di giudizio.

Vorrei soffermarmi su alcune riflessioni personali relative alla fotografia e, in particolar modo, al lavoro lasciatoci dalla Arbus.

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